Gabriele Graziani: Torino scuola di calcio e di vita, Mantova più di una seconda casa

La gioventù trascorsa al mitico Filadelfia, il Toro scuola di calcio e di vita e infine Mantova come seconda casa e forse qualcosa di più: abbiamo incontrato Mister Gabriele Graziani, figlio d’arte e tecnico della Primavera biancorossa che ha ottenuto la promozione vincendo i play-off.

Mister Graziani, cosa ricorda della sua infanzia e delle giovanili nel Toro e cosa può raccontarci del rapporto con suo padre, il popolare “gemello del gol” Ciccio?

“Ho vissuto a Torino fino a sei anni e i ricordi di quando papà mi portava al Filadelfia e al Comunale a vedere la partita sono un po’ sbiaditi. Sono più nitidi, invece, per quanto riguarda gli anni meravigliosi, dai 15 ai 19, quando ho militato nel settore giovanile granata. Vivevo negli alloggi al terzo piano di un grande palazzo in Corso Vittorio Emanuele e la Primavera di cui ho fatto parte è stata l’ultima ad aver giocato allo storico Filadelfia. Quel luogo e quella società trasudavano storia nel vero senso della parola, basti pensare che in sede c’era un quadro gigante che raffigurava gli Eroi di Superga. Il club era molto rigido e il settore giovanile rappresentava una vera e propria scuola di vita ancorché di calcio, per la grande serietà e il grande rispetto delle regole di cui ho fatto tesoro nel prosieguo della mia carriera. Di quel periodo, ricordo un aneddoto legato a Rosario Rampanti che per tre anni è stato mio allenatore: per tornare a casa ad Arezzo avevo quasi cinque ore di treno e un mucchio di coincidenze da prendere, allora appena compiuti i 18 anni e presa la patente, mi sono comprato una Ford Fiesta di terza mano. La prima volta che andai al campo, Mister Rampanti la vide e mi disse ‘Vendila domani altrimenti te ne vai a giocare alla Berretti’. Pensavo fosse uno scherzo e invece il giorno dopo, mi vide arrivare con la macchina e non mi fece nemmeno entrare. Sono stato nella formazione Berretti per tre mesi e quando mi richiamò in Primavera, per un anno intero ho fatto finta di averla venduta e invece la lasciavo alla stazione di Porta Nuova per poi andare in sede con le valigie in mano. Lo dico sempre: il Torino mi ha dato tanto perché mi ha fatto diventare calciatore e uomo, ma poi mi ha tolto tanto negandomi il sogno di arrivare in Serie A nella finale play-off del 2005/06. Ma aldilà di questo, al Toro sarò sempre riconoscente. Mio padre, invece, non è mai stato un idolo perché non l’ho mI vissuto come tale e non devo a lui il fatto di aver giocato a calcio nel ruolo di attaccante. Durante la sua carriera, i ritiri erano lunghi e frequenti per cui passavo poco tempo con lui e mi ricordo in particolare la domenica sera quando rientrava a casa dopo la partita. Ma come calciatore non mi sono ispirato a lui, nonostante il paragone fosse inevitabile e certamente mi abbia pesato”.

Quindi chi è stato il centravanti che le sarebbe piaciuto diventare? “Il mio idolo era Gabriel Batistuta che adoravo per la sua grande forza e potenza, tanto è vero che ogni volta che potevo lo andavo a vedere allo stadio a Firenze. Un’altra punta che mi piaceva molto è Christian Vieri con cui ho giocato insieme anche se lui aveva due anni più di me, era molto grezzo ma con una forza fisica impressionante. E infine ci metto anche Andrea Silenzi che a quei tempi giocava in Prima squadra e mi prese sotto la sua ala protettiva: direi che sono stati questi i calciatori cui mi sono ispirato”.

Nel 2000 è arrivato a Mantova e praticamente non se n’è più andato: cosa rappresenta per lei la nostra città? “Ormai è la mia seconda casa, anzi forse la prima. Ovunque andassi, facevano questo paragone ossessivo fra me e mio padre, specialmente ad Arezzo. Qui a Mantova, invece, non è quasi mai accaduto ed è stata una cosa infinitesimale rispetto a tutte le altre piazze in cui ho giocato. Ho trovato una città bellissima, a misura d’uomo e mi ci sono trovato subito benissimo tanto è vero che mi sono stabilito definitivamente qui”.

Che cosa rappresentano per lei quel periodo e quel Mantova? “A me piace ricordare quel ciclo di tre anni con due promozioni dalla C2 alla B per poi sfiorare la Serie A nei play-off contro il Torino. In quella finale erano in campo 6-7 undicesimi che formavano lo zoccolo duro come Bellodi, Caridi, Spinale e con i quali abbiamo attraversato anche momenti di contestazione molto forti. Certamente rimane il grande rammarico di non essere riusciti a fare l’ultimo passo, quelle due finali contro il Torino sono la classica sliding door a cui ogni tanto ripenso ancora. Sono stati anni bellissimi, la squadra era come una famiglia, avevamo un gruppo molto unito e coeso e non vedevamo l’ora di arrivare al campo per l’allenamento. E poi avevamo un presidente come Fabrizio Lori che davvero era un personaggio straordinario, un presidente vecchio stampo alla Rozzi e alla Anconetani nonostante la giovane età. In città si respirava calcio come forse mai era accaduto prima, Lori aveva portato un entusiasmo incredibile e penso che avrà perso 4-5 allenamenti in tutto. Quando ci si allenava al Martelli e il presidente doveva atterrare con l’elicottero, Mister Di Carlo impazziva perché era costretto a interrompere per qualche minuto l’allenamento“.

La sua ultima stagione da calciatore nel 2012/13 alla Castellana in Serie D: quando è maturata la scelta del ritiro? “A Castel Goffredo ho trovato un bel ambiente, una società seria formata da persone semplici e ricordo che dopo un avvio di campionato pessimo, ci siamo ripresi alla grande fino a giungere a pochissimi punti dalla zona play-off. All’ultima giornata, abbiamo pareggiato 4-4 in casa contro il Sankt Georgen e ho segnato in rovesciata uno dei gol più belli che abbia mai fatto. Purtroppo ho dovuto convivere per mesi con un problema al tendine e alla fine ho deciso di smettere: ero in macchina mentre andavo al campo, ho avvertito come un peso e lì ho capito che era giunto il momento di dire basta. La scelta di fare l’allenatore, invece, dentro di me l’avevo già fatta qualche anno prima quando cominciavo a interessarmi della gestione del gruppo”.

Quali caratteristiche deve avere una squadra di Mister Graziani? “Tutte le mie squadre devono avere grande temperamento, devono essere l’avversario che nessuno vorrebbe incontrare. Per fare un esempio attuale, devono essere come l’Atalanta di Gasperini anche se personalmente mi sento più vicino ad Ancelotti per come sa gestire lo spogliatoio e lavora soprattutto sull’aspetto mentale e psicologico. Avendo giocato ad alto livello, infatti, i grandi calciatori li riconosci subito per la loro mentalità che poi fa sempre la differenza aldilà delle qualità tecniche”.

Qual è il segreto del successo della sua Primavera? “Direi che quando si raggiungono determinati traguardi, il merito vada diviso fra tutti, calciatori, staff tecnico e società. Personalmente, ritengo che assieme ai miei collaboratori, abbiamo svolto un grande lavoro specialmente a inizio stagione quando nel gruppo mancava la giusta mentalità, dovevano fare lo switch mentale necessario per il salto di qualità. Vedevo nei ragazzi poca professionalità, poca cultura del lavoro e non c’era l’approccio ideale a un campionato professionistico. Fortunatamente siamo riusciti a migliorare e alla fine della stagione la squadra sembrava avesse il pilota automatico, si è fatta trovare nelle condizioni psicofisiche ottimali per il rush finale e ha compiuto una splendida impresa. Voglio condividere questa soddisfazione con i miei collaboratori: Carlo Alberto Galusi, Matteo Cristina, Mirko Bellodi, Andrea Baraldini e Paolo Visani”.

Come vede la Nazionale agli Europei in Germania? “La Nazionale attuale non mi fa impazzire, mi sembra priva di talento ma è vero che ogni volta che l’Italia è partita fra mille dubbi e incertezze, è riuscita a fare le cose migliori. Spalletti credo sia uno dei migliori allenatori in circolazione e potrebbe fare la differenza, servirà anche un pizzico di fortuna”.

Stefano Aloe

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